Studiare in un college americano è un sogno comune a molti studenti. Particolarmente ambiti sono gli atenei più prestigiosi, come quelli della Ivy League.
Tra chi è riuscito a realizzare questo sogno, c’è Pietro, ragazzo italiano laureatosi ad Harvard, attualmente impegnato in un dottorato all’Università Bocconi di Milano. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua esperienza negli States.
In realtà, è stata una grossa coincidenza. Al quarto anno di liceo ho fatto 6 mesi di Intercultura vicino San Francisco. Siccome negli USA gli anni di Liceo sono quattro e la scuola era pubblica avevo fatto, insieme ai miei compagni, un test di ammissione all’università gratuito (per invogliare gli studenti delle scuole pubbliche ad andare all’università, ndr). Pur non essendo effettivamente uno studente dell’ultimo anno, contavo come tale. Quindi ho fatto il test, senza grosse ambizioni, ed è andata bene. L’azienda che gestisce questi esami di ammissione (College Board) inserisce i punteggi in un database unico, visibile agli atenei, che possono cercare i candidati di loro interesse.
Una volta tornato in Italia, sono cominciate ad arrivarmi alcune lettere ed e-mail dalle varie università. Negli USA, si ha la tendenza a volere studenti con background variegati: uno studente internazionale, che aveva fatto un semestre di studio all’estero, interessava. Nel frattempo, però, avevo già scelto l’università in Italia, quindi non ci avevo dato molto seguito.
L’estate dopo – tra quarto e quinto anno di liceo –ho ricevuto una lettera da Harvard, che mi invitava a fare domanda. Siccome le università della Ivy League hanno programmi di sostegno economico molto buoni, mi sono convinto a provare. Ho fatto lo stesso in tutte le realtà che ritenevo non avessero paragoni in Italia. Ad Harvard è andata bene.
Sono potuto andare lì con una borsa di studio, e ho potuto sfruttare molte opportunità di fare un lavoro part-time nel college per avere anche qualcosa in più. Voglio sfatare un mito: in questi atenei che se lo possono permettere, l’ammissione avviene ciecamente, senza nessuna informazione sul reddito. Una volta che lo studente è stato ammesso, l’Università chiede una sorta di dichiarazione dei redditi del nucleo familiare e, in base a quello, decide quanto deve versare. Se il reddito è inferiore a circa 70 mila euro, l’Università è addirittura completamente gratuita.
Intorno a me, ho avuto figure che mi hanno supportato molto. C’è stata un po’ di resistenza solo da parte di alcuni professori italiani, già non troppo contenti all’idea che avessi fatto un semestre all’estero durante il liceo. A parte questi rari casi, mi sono stati molto d’aiuto, da un lato, la coordinatrice di classe e vari insegnanti del liceo italiano, dall’altro, alcuni insegnanti della scuola americana, che hanno scritto anche le cosiddette lettere di presentazione (reccomendation letters ndr).
Tuttavia, non mi hanno potuto aiutare molto a livello tecnico: per i professori italiani era un processo molto nuovo; negli Usa, invece, di queste cose non si occupano i docenti, ma figure specifiche dette counselor. L’ho quindi gestita autonomamente, senza molte ansie: quando avevo qualche dubbio, mandavo una mail all’Ufficio ammissioni. Anche lì ho trovato persone molto gentili, disponibili, che mi hanno spiegato bene quale documentazione servisse, quale no. Incoraggerei tutti i ragazzi interessati a questo tipo di percorsi ad essere audaci, a contattare direttamente gli Uffici di ammissione che, dalla mia esperienza, sono molto disponibili.
Semplicemente, l’esperienza più bella della mia vita: quattro anni vissuti come in un film. Soprattutto nel primo periodo, c’è stata anche una sensazione di smarrimento ed intimidazione: si fa lezione con persone che hanno vinto Nobel e hanno fatto la storia, le aule sono intitolate a grandi personalità che hanno studiato lì. Si ha un po’ una sindrome dell’impostore: ci si chiede se non si stati ammesso per sbaglio, ci si sente molto piccoli rispetto agli altri, che sono persone geniali, che o eccellono in qualche ambito o sono estremamente versatili e molto preparati in qualsiasi campo. Mi ha aiutato molto una frase che ci disse un docente che ci faceva orientamento: sappiate che questa sensazione è comune a tutti. Questa comunanza è stata la chiave di volta, ed anche la cosa che mi è rimasta di più, perché la differenza la fanno le persone.
Alla fine un corso lo si può seguire bene in qualsiasi università, se capita un docente bravo. Così come alcuni docenti famosi o ricercatori eccellenti di Harvard, anche vincitori di Nobel, possono essere terribili ad insegnare: per esempio gli educatori che per me sono stati più efficaci non sono famosi. La cosa che rimane sono le amicizie, i contatti, le persone: è veramente un gruppo selezionato di persone splendide, sia dal punto di vista umano sia dal punto di vista delle qualità.
Dal punto di vista umano, vale tantissimo: è un’esperienza che consente di entrare in contatto con una miriade di culture che, altrimenti, difficilmente si riuscirebbero ad incontrare. Per esempio, ho potuto festeggiato il Thanksgiving Day con una famiglia di religione diversa ogni anno. Da questo punto di vista, dunque, la consiglio sicuramente, sia in triennale che successivamente.
Tuttavia, è bene specificare che, in Italia, il processo di conversione di una laurea conseguita negli USA è incredibilmente farraginoso e, a volte, doloroso. Quindi, dal punto di vista tecnico, bisogna fare attenzione. Se una persona vuole laurearsi in una disciplina per cui, in Italia, vale solo il titolo di studio italiano (ad esempio medicina) o vuole accedere a qualche posizione tramite concorso pubblico, allora non consiglio di fare l’esperienza: per esempio, in questo momento mi sto trovando in grande difficoltà a convertire il titolo di studio in Italia. Meglio iscriversi in una scuola italiana e poi fare un semestre di studio presso un’università estera accreditata. Invece, se qualcuno vuole specializzarsi in business, economia o andare a lavorare in azienda, la consiglio molto.
Concretamente, il consiglio è di provarci, di consultare le pagine dell’università. Su questo non ho avuto alcuna dote speciale o marcia in più rispetto ad un liceale qualsiasi. Spesso mi arrivano messaggi tipo “ho visto che hai studiato ad Harvard, mi sai dare qualche dritta?”. In realtà, l’unico consiglio è essere proattivi, contattare le persone di competenza. Io ho avuto tantissima fortuna, ma non ho risolto alcuna equazione mistica dell’ammissione.
Credo che la cosa che mi sia andata meglio sia stato il colloquio di ammissione perché sono andato molto sciolto, tranquillo, rilassato. Me lo ha confermato anche l’esaminatore: di solito – mi disse – gli studenti sono un po’ terrorizzati quando arrivano qui. L’ho vissuta a cuor leggero perché avevo già un’alternativa in Italia che mi rendeva felice, quindi l’ho vista un po’ come una scommessa, non era il mio obiettivo della vita. Se, invece, una persona se lo pone come obiettivo di carriera, va all-in su questa mossa, c’è il rischio vada molto teso, si impappini o non abbia successo. Nonostante magari sia brillante e abbia tutte le carte in regola per avere successo. Inoltre, avevo il vantaggio di sapere bene l’inglese: dopo sei mesi negli USA, avevo preso anche l’accento.
In Italia, prevale sicuramente la memorizzazione dei concetti: funziona per tante persone, ma non per tutti. L’approccio americano è molto più produttivo che mnemonico, basato su progetti, lavori di gruppo. Per esempio, nel corso di microeconomia avanzata che ho fatto, ci si chiedeva non di studiare i papers per ripeterli ad un esame orale, come ho visto fare in Italia, ma di ricrearli con progetti di simulazione.
Sono rimasto in contatto con molti docenti di economia, la materia di cui mi sono occupato di più, che insegnano anche al master o dottorato. Mi dicono che gli studenti che hanno conseguito la laurea in Italia, sono veramente molto preparati. Quindi, anche se qualcuno non se la sente di fare un’esperienza negli Stati Uniti o all’estero già dalla triennale, può andare senza problemi in magistrale, oppure per un master o un dottorato. L’Italia è un’alternativa molto valida, in alcuni casi anche più dell’estero.
Adesso per esempio insegno alla Bocconi un corso di microeconomia introduttiva, il primo che gli studenti fanno una volta arrivati all’università: è molto più complesso e dettagliato della microeconomia introduttiva che si studia negli Usa il primo anno. Di sicuro, una persona che va bene in un’università italiana ha tutte le carte in regola, se non di più, per poter eccellere in tutto il mondo.
Un’altra differenza è culturale, riguarda come viene vissuta l’università. In Italia, è un servizio: si seguono le lezioni e si danno gli esami, fine. Negli ultimi anni, anche grazie alla globalizzazione dell’apprendimento, sta emergendo un modello più americano, basato sulle associazioni studentesche. Prima, le uniche associazioni presenti in università erano i gruppi politici di rappresentanza studentesca. Adesso, vedo con piacere che stanno nascendo anche altri gruppi: le associazioni di analisi economica, sportive, teatrali. Questo ci avvicina a quello che è un ottimo modello di apprendimento a tutto tondo, tipico di chi vive l’università ogni minuto della giornata, come accade nei college americani.
Negli USA si è immersi completamente nelle attività dell’università: è stata una delle cose più belle della mia esperienza e sono contento che l’Italia si stia muovendo in questa direzione.
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